[da: “Società senza lavoro – Per una nuova filosofia dell’occupazione”, Dominique Méda, 1997, Feltrinelli]
Ma la Grecia classica è andata ancora più avanti nel disprezzo per le attività lavorative. Attraverso i testi di Platone e di Aristotele, vediamo insediarsi un ideale di vita individuale e collettiva da cui il lavoro è escluso o quasi. La stessa struttura sociale greca ne è la prova: l’insieme dei compiti direttamente legati alla riproduzione materiale è in effetti assunto e svolto da schiavi […]. Tutta la filosofia greca è in effetti fondata sull’idea che la vera libertà, in altre parole ciò che permette all’uomo di agire secondo quanto vi è di più umano in lui, il logos, comincia dove la necessità finisce, una volta che i bisogni materiali siano stati soddisfatti. […] Aristotele lo afferma esplicitamente, in apertura della Metafisica: “Solo quando furono a loro tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi una tale sorta di indagine scientifica”. Questa disciplina, la filosofia appunto, è la sola scienza che sia una disciplina liberale, in quanto non la pratichiamo per altro che per se stessa: “Consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé”. Sul versante opposto della sfera della libertà, che ci avvicina al divino, si dispiega la sfera della necessità, quella del lavoro, e soprattutto del ponos, del lavoro faticoso, delle funzioni degradanti, per essenza servili. Come si vede, la situazione del lavoro nella società greca si fonda in ultima analisi su un’idea – oggi parleremmo di “concezione” – dell’uomo che gli conferisce il suo senso pieno: l’uomo è un animale razionale e il suo compito è quello di sviluppare la ragione che lo fa uomo e che lo rende simile agli dei. Esercitare la ragione significa: sul piano teorico fare filosofia o attività scientifica, sul piano pratico agire secondo virtù, su quello politico essere un eccellente cittadino. In ogni caso significa utilizzare nel migliore dei modi le nostre facoltà, cosa che si può fare solo essendo liberi, cioè sviluppando attività che hanno un fine in se stesse e non fuori di sé. La vera vita è la vita oziosa, e divenire capaci di vivere una vita del genere è la meta dell’educazione. […] l’ozio greco non ha ovviamente nulla a che vedere con ciò che il termine designa ai giorni nostri.
Il tempo liberato
[da: “Tempo e lavoro – Storia, psicologia e nuove problematiche”, Pierenrico Andreoni, 2005, Mondadori]
Allora, uscendo dagli schemi della società fondata sul lavoro, la rivoluzione apportata dalla tecnologia ci dona la possibilità di redistribuire il tempo che la produttività ha liberato dal lavoro; esso è un tempo nuovo, di natura completamente diversa da quello che abbiamo conosciuto finora, perché è un tempo che ciascuno potrà “sottrarre al sistema” e rendere disponibile “per mille e una attività autodeterminate”. Esso […] non è più un tempo attribuito dal sistema, ma è un tempo scelto, autodeterminato da un atto volontario; non è più un tempo il cui contenuto è qualificato dal lavoro (studio per il lavoro, tempo libero dal lavoro, pensione dopo il lavoro) e dalla sua assenza, ma è un tempo in sé, vuoto di contenuto e proprio per questo potenzialmente aperto a tutti i contenuti che ciascuno voglia dargli. Il tempo libero, di svago, è ancora determinato dal lavoro, di cui costituisce la valvola di sfogo, serve a ricaricare le batterie per poi esser nuovamente efficienti sul lavoro; il tempo liberato, invece, sarebbe caratterizzato dalla libertà più pura, non determinato dall’organizzazione sociale, né dalla costrizione economica del lavoro.