«E perché vivi? Per ammucchiare intorno a te dolori su dolori e renderti così disgraziato? E questo me lo chiami affetto per i tuoi? Quale affetto, uomo? Se è bene, non deve essere causa di male alcuno: se è male, non ha niente a che fare con me. Io sono nato per i miei beni, ma per i mali, no, non sono nato.
Quale esercizio si richiede, dunque, a questo scopo? In primo luogo, quell'esercizio principale e importantissimo che si trova subito, quasi sulla soglia, e cioè di non ritenere inalienabile l'oggetto a cui ti affezioni, ma nello stesso conto d'una pignatta o d'un bicchiere di vetro, sicché, caso mai vada in frantumi, tu, ricordandone la natura, non ne rimanga turbato.
Cosi pure nel nostro caso: se baci il tuo figliolo, o il fratello o l'amico, non abbandonare la tua fantasia a ogni sogno e non lasciare che la tua contentezza si sbrigli dove vuole, ma reprimila, moderala, come fanno quelli che stanno dietro al trionfatore ricordandogli che è uomo. Qualcosa di simile ricorda anche tu: che ami un oggetto mortale, che ami un oggetto non tuo: ti è stato concesso per il momento, e non in maniera inalienabile né per sempre, ma, come il fico, come l'uva, in una determinata stagione dell'anno; quindi, se ne senti la brama d'inverno, sei pazzo. Così se desideri un figlio o un amico quando non t'è concesso, sappi che brami un fico d'inverno. In realtà, quel che è l'inverno rispetto al fico lo è ugualmente ogni circostanza prodotta dall'universo rispetto a quanto essa esige ci sia strappato.
Del resto, nel momento stesso in cui godi di qualcosa, poniti davanti alla mente le rappresentazioni contrarie. Che male c'è se nel baciare il tuo figliolo dica balbettando: "domani morrai"? e così con un amico: "domani partirai o tu o io, e non ci vedremo più"?»
– Epitteto (Diatribe, Libro III)