“Oltre le cupe soglie del sopore
vigilate dai ghoul,
oltre i notturni abissi della luna,
ho vissuto esistenze senza numero,
ho sondato ogni cosa col mio sguardo;
e grido disperato ad ogni aurora perché divento folle dal terrore.
Ruotavo con la Terra al suo mattino,
quando il cielo era un turbine di fiamma;
ho visto il cosmo oscuro spalancarsi
là dove neri mondi vagan senza scopo,
vagano nell’orrore inavvertiti, senza fama né nome né coscienza.
Ho aleggiato su mari sconfinati,
sotto sinistri cieli grigio-piombo
lacerati da folgori improvvise,
fra tuoni come grida di terrore,
con gemiti di dèmoni invisibili emersi dalle acque di smeraldo.
Come un daino ho sostato sotto gli archi
delle grandi foreste primordiali,
ove s’avverte la Presenza Immonda
in luoghi dagli spettri anche evitati,
e alla Cosa che Avvinghia son sfuggito, a Colei che sogghigna dietro i rami.
Sui monti crivellati di caverne
che si levano squallidi dal piano
ho bevuto acque infette dalle rane,
che filtran dagli stagni e dagli scoli;
ed in fonti sulfuree maledette ho visto cose che non oso dire.
Ho visto un gran palazzo cinto d’edera,
nelle sue sale vuote sono entrato,
dove la luna alta sulle valli
proietta strane ombre sulle mura:
apparenze deformi ed intrecciate, il cui ricordo non oso richiamare.
Ho spiato dubbioso nelle case,
da giardini in rovina circondate,
di un villaggio maledetto cinto
da un lugubre terreno sepolcrale:
e dai lunghi filari d’urne bianche ho ascoltato venire voci arcane.
[...] [...]”
– H.P. Lovecraft, Nemesis (traduttore sconosciuto)