Versi di Giuvenale, ottimo poeta satiro:
Pena fu data a chi molto ci vive,
che iterata sempre clade in casa,
con molti pianti e perpetuo merore
s’invecchi adolorato in veste nera.
Onde comune proverbio si dice: «Chi più ci vive più ci piange». E publico vediamo colla età surgono infinite lassitudini a nostre membra, infiniti dispiaceri, né troverai vivuto alcuno più dì a cui non sia domestica alcuna e quasi assidua infermità e dolore. Poi non posso non biasimare chi se dica non potere fare che non tema uscir di vita. E chi sarà che dubiti a ciascuno de’ mortali, naturale sua innata necessità, destinatoli stare el suo ultimo dì? Glaucopis dea, presso ad Omero, negava li dii a qual vuoi loro amico potere distorli che non caggia in eterno sonno e morte. Socrate a chi gli anunziava ch’e’ suoi cittadini deliberorono che morisse, rispuose: «E la natura più fa avea deliberato che neanche loro sempre vivessono». E chi non vede che da el primo dì che noi usciamo in vita, come dicea Manilio Probo, quel poeta astronomico, quasi nascendo moriamo ["Nascentes morimur" (IV, 6), nota mia]. E dal nostro primo principio in vita pende il nostro fine in morte. Ma el vivere nostro è egli altro che un morirsi a poco a poco?
Sono versi di Lucrezio poeta vetustissimo:
Già poi che ’l tempo con sue forze in noi
straccò e’ nervi e allassò le membra,
claudica el piede e l’ingegno e la lingua,
persin che manca ogni cosa in un tempo.
E apresso a Plauto poeta comico dicea Lisimaco, subito che l’uomo fie vecchio già più né sente né sa. E quell’altro vecchio plautino dicea la vecchiezza essere pur mala mercantia qual seco porta più cose pessime. Qualunque cosa ebbe principio, provano e’ filosofi, arà suo fine naturale, quale necessità certo si richiede a nostra vita. E dobbiamo stimarla sì come necessaria, così ancora né dura essere né inutile.”
– Leon Battista Alberti, "Theogenius" (Libro II), XV sec. (in "Opere volgari", Laterza, 1966)