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L'Espresso: La parola straniero ci inquieta. Perché è il nostro specchio (di Wlodek Goldkorn, colloquio con la filosofa Donatella Di Cesare, 16 luglio 2018)
«Nello straniero vediamo la nostra estraneità, che ci fa paura. Gli esempi sono banali; ci fa paura sentire la nostra voce registrata, o guardarci allo specchio osservandoci. Noi questa estraneità la cerchiamo di rimuovere. Dal punto di vista della nostra psiche è la questione centrale. Mi spiego: tendiamo a pensare che la nostra identità sia fissa e immutabile. E invece non è così: oggi siamo diversi rispetto a ieri, per fare un’osservazione banale. Vede, lo straniero è uno specchio della nostra scissione intima, della ferita che ciascuno di noi si porta dentro la psiche. Ora, ci sono persone capaci di introspezione e che quindi sopportano la non integrità. E c’è chi non la sopporta.»
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«Sono temi che la sinistra ha aggirato, eluso. La sinistra, tra cittadino e migrante si è schierata con il cittadino. Tutti i discorsi della sinistra sono su come governare i flussi, gli sbarchi, l’immigrazione. Del resto, i cittadini votano i migranti no. Quindi la sinistra si occupa dei “propri” poveri, del welfare nel “proprio” Paese e quello che succede fuori dai confini è come se non la riguardasse. [...]
Il problema è che la giustizia sociale non è possibile in un Paese solo e certamente non nell’epoca della globalizzazione. La storia della sinistra è la storia dell’Internazionale. Non ci piace più la parola Internazionale? Bene, usiamo un altro termine, ma non si può tradire una vocazione e una tradizione. Altra parola diventata tabù per la sinistra è “proletariato”. Ma il proletariato è per eccellenza la classe solidale. Il proletariato non è la classe ripiegata su se stessa, egoista, il proletariato combatte per i diritti di tutti, altrimenti è una corporazione. Il proletariato è la classe che emancipa le altre, quindi deve essere necessariamente solidale e internazionalista.»