«In me il tedio è frequente, ma, che io sappia, non obbedisce a regole di apparizione. Mi succede di passare senza tedio una stanca domenica; posso esserne coperto all’improvviso, come da una nuvola, mentre lavoro alacremente. Non riesco a metterlo in rapporto con la salute o con la mancanza di salute; non riesco a conoscerlo come un prodotto di cause che appartengono al lato conosciuto di me stesso.
Dire che è un’angustia metafisica travestita, che è una grande delusione incognita, che è una poesia sorda dell’anima che si affaccia annoiata dalla finestra della vita: dire questo, o una cosa analoga, può colorare il tedio, come un bambino colora un disegno sorpassando e cancellandone i contorni, ma mi porta soltanto un suono di parole che risuona nei sotterranei del pensiero.
Il tedio... Pensare senza che si pensi, con la stanchezza di pensare; sentire senza che si senta, con l’angoscia del sentire; non volere senza che non si voglia, con la nausea di non volere: tutto questo sta nel tedio senza che ciò sia il tedio, e del tedio è soltanto una parafrasi o una traslazione. Consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell’anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere. È un isolamento di noi in noi stessi, ma un isolamento dove ciò che separa è stagnante come lo siamo noi: acqua sporca che circonda la nostra impossibilità di capire.
Il tedio... Soffrire senza sofferenza, volere senza volontà, pensare senza raziocinio... [...]
Il tedio... Eppure io sono un uomo che lavora. Assolvo a quello che i moralisti chiamerebbero il dovere sociale. Assolvo a questo dovere, o a questo fato, senza grande applicazione o negligenza. Eppure, sia mentre lavoro che mentre riposo (riposo che, secondo gli stessi moralisti, mi spetta e deve aggradarmi) il mio spirito trabocca di un fiele di inerzia, e sono stanco, non del lavoro o del riposo, ma di me.
Perché di me, visto che non pensavo a me? Di cosa altro mai, visto che non pensavo a niente? È forse il mistero dell’universo che lambisce il mio ozio o il mio libro della contabilità? È il dolore universale di vivere che si concretizza all’improvviso nella mia anima medianica? Ma perché nobilitare tanto una persona che come me non conosce neppure se stessa? È una sensazione di vuoto, una fame senza appetito, nobile quanto i riflessi dei nervi dello stomaco, causati dalle troppe sigarette o dalla cattiva digestione.»
– Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, 1.12.1931 (tr. it. di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Feltrinelli)