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Corriere Della Sera La Lettura: La crisi dell’Europa è del linguaggio (di Donatella Di Cesare, 7 aprile 2019)
"Ludwig, in famiglia Luki, pur essendo un Wittgenstein, è tuttavia diverso. Il suicidio lo insegue. Ma lui, paralizzato, bloccato, non riesce a compiere quel gesto. Si arruola volontario per mettersi alla prova e la guerra lo risparmia. Quando fa ritorno è un altro e la Vienna d’un tempo non esiste più. Durante la prigionia ha compreso che il suicidio — come ammetterà in uno scambio con l’amico architetto Paul Engelmann — non è «decente». Si manifesta l’afflato etico del suo pensiero. Non si tratta, però, né di cercare vie di fuga, né tanto meno il conforto di una redenzione. È consapevole di quell’estraneità profonda, quello schermo sottile che sembra separarlo dagli altri. Mentre termina il Tractatus medita sulle scelte che possono rendergli accettabile l’esistenza: cedere il patrimonio ereditato alle sorelle e al fratello; vivere poveramente di un lavoro onesto; farla finita con la filosofia. Quest’ultimo proposito non si realizzerà.
Nella tragica alternativa tra il dovere del genio e la morte, Wittgenstein mette in discussione l’originalità. Proprio in quegli anni Hitler aveva indicato nell’ebreo un «parassita privo delle qualità che contraddistinguono le razze creative», impoetico e senza «fondamenti». Con una mossa a sorpresa Wittgenstein capovolge la violenta diffamazione antisemita. Essere riproduttivi, cioè coniugare vecchio e nuovo, ridire il già detto, aprendo vie trasversali, scorgendo connessioni inedite: è quanto sa fare lo «spirito ebraico».
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La filosofia distrugge i vecchi idoli della metafisica — l’identità, il soggetto, l’interiorità — senza crearne nuovi. Questa è la battaglia contro «l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio». Ma ciò non implica né una riforma, né tanto meno la riduzione del linguaggio alla logica, come pretendeva il Circolo di Vienna. Per Wittgenstein tutto si compie nella trama dei giochi linguistici che si giocano ogni giorno. Da qui prende avvio la «terapia» il cui scopo è mettere in guardia da tutta quella metafisica incorporata già nella lingua. Il filosofo tradizionale fa come se il linguaggio fosse un semplice strumento neutro; il filosofo in rivolta, insofferente verso i fraintendimenti contenuti nella lingua quotidiana, mostra «capacità di sofferenza». Ma la via per risolverli, o meglio, dissolverli, passa a sua volta per il linguaggio. «Il filosofo si sforza di trovare la parola liberatrice, quella parola che alla fine ci permette di cogliere ciò che fino allora, inafferrabile, ha sempre oppresso la nostra coscienza».
La terapia — un tema su cui hanno insistito le nuove tendenze interpretative, da Stanley Cavell a Peter Sloterdijk — è sempre anche introspezione. Il disagio, che non è avvertito da tutti, nasce dal disordine. Si manifesta così: «Non mi oriento più». Di qui l’immagine del filosofo che mette a posto una stanza. «In filosofia non gettiamo le fondamenta, ma mettiamo in ordine una stanza». Attenzione, però, l’ordine è uno degli ordini possibili. Come non c’è fondamento, così non c’è ordine definitivo. Altrimenti la filosofia di Wittgenstein non sarebbe diversa da un sistema filosofico. Non si dà la «pace nei pensieri». E Wittgenstein non esita a esprimere il suo disaccordo verso chi intende l’ordine in modo normativo."