Accettare i nostri limiti di esseri umani è necessario per provare a compensarli razionalmente, senza ammattire dietro agli iper-idealismi e alla inaffidabilità del mero meccanismo empatico.
- Francesco Costa, Morning (Il Post), Ep. 198, 8 Marzo 2022:
«Da una parte constatiamo il fatto che questa guerra ci colpisca di più, che questi morti ci fanno più male degli altri morti che abbiamo visto in altre guerre più lontane da noi; dall'altra parte c'è quasi un po' di vergogna, oppure la condanna di questa realtà che si sintetizza nella domanda: perché non ci scandalizziamo, perchè non ci diamo da fare allo stesso modo quando le vittime della guerra sono siriane, eritree, yemenite, congolesi, senza contare i contesti molto più politicizzati e quindi molto più controversi come l'Afghanistan, l'Iraq, la Palestina?
La constatazione è sicuramente utile a capire quali sono le nostre inclinazioni, i nostri bias; ma è contemporaneamente inutile stare qui a chiedersi se sia giusto o sbagliato: [...] non credo che nessuno voglia proporci di occuparsi meno degli ucraini siccome ci siamo occupati meno delle persone che soffrono in Yemen o in Eritrea.
Questo sarebbe semmai il momento in cui, riconoscendo questo stato di fatto, cercare di essere più sensibili la prossima volta, cercare di essere più sensibili già oggi, per le persone che muoiono in guerra in posti più lontani e diversi da dove siamo.
Ma è inevitabile per noi che i morti non siano tutti uguali.
Se ogni morte nel mondo ci colpisse come quella di un amico avremmo smesso di vivere perché non saremmo più in grado di funzionare; è nella nostra natura essere colpiti diversamente da fatti tutto sommato simili tra loro.
Funzioniamo così noi esseri umani, è giusto rendersene conto, quindi cercare razionalmente di compensare. Essere a conoscenza dei nostri punti ciechi è necessario a limitarne gli effetti.»
«Da una parte constatiamo il fatto che questa guerra ci colpisca di più, che questi morti ci fanno più male degli altri morti che abbiamo visto in altre guerre più lontane da noi; dall'altra parte c'è quasi un po' di vergogna, oppure la condanna di questa realtà che si sintetizza nella domanda: perché non ci scandalizziamo, perchè non ci diamo da fare allo stesso modo quando le vittime della guerra sono siriane, eritree, yemenite, congolesi, senza contare i contesti molto più politicizzati e quindi molto più controversi come l'Afghanistan, l'Iraq, la Palestina?
La constatazione è sicuramente utile a capire quali sono le nostre inclinazioni, i nostri bias; ma è contemporaneamente inutile stare qui a chiedersi se sia giusto o sbagliato: [...] non credo che nessuno voglia proporci di occuparsi meno degli ucraini siccome ci siamo occupati meno delle persone che soffrono in Yemen o in Eritrea.
Questo sarebbe semmai il momento in cui, riconoscendo questo stato di fatto, cercare di essere più sensibili la prossima volta, cercare di essere più sensibili già oggi, per le persone che muoiono in guerra in posti più lontani e diversi da dove siamo.
Ma è inevitabile per noi che i morti non siano tutti uguali.
Se ogni morte nel mondo ci colpisse come quella di un amico avremmo smesso di vivere perché non saremmo più in grado di funzionare; è nella nostra natura essere colpiti diversamente da fatti tutto sommato simili tra loro.
Funzioniamo così noi esseri umani, è giusto rendersene conto, quindi cercare razionalmente di compensare. Essere a conoscenza dei nostri punti ciechi è necessario a limitarne gli effetti.»