«[...] Non riesco davvero a capire come un individuo sensibile possa essere realmente felice. Non esiste proprio nulla nell'universo per cui valga la pena di vivere: a meno che un uomo non riesca a eliminare il pensiero e la speculazione filosofica dalla sua mente, è destinato a rimanere oppresso dall'immensità del creato. Per far fronte alla realtà la soluzione migliore è senz'altro quella di trastullarsi con la religione, o con qualunque altro analogo palliativo di cui si disponga. [...]
Ci sono molti modi per alleviare il fardello dell'esistenza. Per l'individuo che privilegia la sfera corporea, c'è il piacere puro che nasce dal sentirsi vivo: la joie de vivre, come dicono i nostri amici gallici. Per chi è portato a credere, c'è la religione e i suoi sogni sul paradiso. Per il moralista, c'è la soddisfazione che si può trarre da una condotta virtuosa. Per lo scienziato, c'è il piacere che nasce dalla ricerca della verità, e che quasi annulla il senso di angoscia che la scoperta della verità provoca. Per l'individuo di gusti raffinati, ci sono le belle arti. Per chi ha senso dell'humour, c'è la beffarda gioia che nasce dall'osservazione della vanità e dell'incoerenza della vita. Per il poeta, c'è l'abilità e il dono di sapersi plasmare con la fantasia una piccola Arcadia, in cui trovare rifugio dallo squallore della realtà. In altre parole, il mondo è pieno di mere illusioni che possiamo chiamare "felicità", purché siamo capaci di coltivarle. Quindi la capacità di essere felici dipende soprattutto dalle caratteristiche individuali: varia a seconda delle persone, ed è connaturata alla specie, fino a quando la troppa istruzione o il progresso non la rimuovono.»
– H.P. Lovecraft, lettera al Kleicomolo dell'ottobre 1916, in: "L'orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica (Lettere 1915-1937)", a cura di G. De Turris e S. Fusco, trad. di M. Berruti, Ed. Mediterranee, 2007